Dialogo alla nursery fra arabi e israeliani.

Palestina Una coppia milanese vuole aiutare i neonati dell’ospedale di Nazareth.

di Enrico Fovanna
IL GIORNO del 02 Giugno 2006

MILANO – Una promettente e brillante carriera nel settore finanziario. Poi la malattia che ti porta a scoprire cosa significa finire in ospedale, dipendere dai medici e dalla loro professionalità – e umanità –, sottoporsi a terapie e analisi. Poi la guarigione. Nelle ultime settimane del 2005 la vita di Elena Fazzini, milanese con un passato di esperienze lavorative nelle organizzazioni internazionali e umanitarie Onu abbandonate per amore, ha subito uno di quei giri di boa a 360 gradi che prima o poi capitano a tutti.

E che hanno spinto lei e il marito Paolo Grecchi, avvocato, a innamorarsi di Israele, di Nazareth e di quello stupefacente crogiuolo di culture, fedi e popoli che è la Terra Santa. «Ho chiesto ai medici che mi stavano curando se mi potevano segnalare un ospedale in una zona critica del mondo bisognoso di sostegno».

Il destino ha voluto che la scelta cadesse sull’ospedale “Holy Family” (Sacra Famiglia) di Nazareth, fondato dai Fatebenefratelli nel 1880.

Elena e Paolo iniziano a informarsi. Vanno in Israele (non senza passare attraverso le forche caudine dell’interrogatorio di terzo grado dei poliziotti israeliani a Malpensa e a Tel Aviv).

Scocca il colpo di fulmine. «L’ospedale è un’isola di dialogo e di speranza in una terra lacerata da contraddizioni e incomprensioni fra ebrei e palestinesi. I cartelli sono multilingue: in ebraico, arabo, inglese e russo. Mentre in quelli israeliani la sola lingua ufficiale è l’ebraico, un segnale fra i tanti di quel sottile apartheid fra palestinesi ed ebrei, in essere anche in un luogo di cura, che alimenta odi e divisioni. E non ci sono solo i cartelli. Qui il personale è israeliano, palestinese. Il direttore sanitario è italiano. Nei reparti e in corsia si alimenta il dialogo e la stima reciproca, che non s’interrompono fuori dall’ospedale e che tutti inevitabilmente portano a casa, seminando la pianta della tolleranza». Alla Sacra Famiglia non sono però tutte rose e fiori. Il 60% dei costi ordinari è coperto dal ministero della Sanità d’Israele. Per tutto il resto bisogna affidarsi alla buona volontà degli altri. Una mano è arrivata dal vecchio ospedale di Lecco (quello sostituito dal “Manzoni”): apparecchiature destinate alla discarica sono state riutilizzate in Maternità. C’è la Maternità. Ma è assente la Neonatologia.

Elena e Paolo lo scoprono quando visitano l’ospedale. «Se un bambino dev’essere sottoposto a terapia intensiva è trasferito all’ospedale di riferimento israeliano. Ma non ci arrivi in 15 minuti a sirene spiegate come a Milano. Oltre alla distanza ci sono i check-point, i controlli della polizia. Bisogna realizzarlo qui». Nasce così il progetto “Hope”: 40 posti di nursery, 4 di cura intensiva e 8 di post-intensiva. Un reparto all’avanguardia «e anche bello, con un giardino tropicale al centro». Il progetto c’è. Servono i soldi. Elena e Paolo hanno già mobilitato amici e conoscenti. Una trentina di professionisti. II loro appello, ora, si rivolge alla generosità dei brianzoli, terra di artigiani e mobilieri: «Servono infissi, mobili, suppellettili varie. Dateci una mano come potete. E’ anche possibile “adottare” a distanza una culla, ovvero acquistarla, con 500 euro. Mentre un’incubatrice costa 11mila euro».

L’indirizzo di posta elettronica del progetto “Hope” è: hope@hotmail.com. Il conto corrente: 3300000 del Banco di Desio, abi 3440 cab 1600.