Aiutando l’Amazzonia a respirare

Non posso resistere al richiamo degli ultimi e riesco a coinvolgere chi conta in progetti folli. Così mi sono trovata tra le mani la più importante missione umanitaria estera che l’Italia abbia realizzato in pieno Covid

Marta Stella
Marie Claire del 16 Settembre 2021

testimonianza raccolta da Marta Stella

«Pronto, parlo con la signora Fazzini? Sono il Cardinale Konrad Krajewski, l’Elemosiniere del Papa. Francesco ha una missione per lei». È un caldo pomeriggio di giugno del 2020, l’anno terribile della prima ondata di Covid19. Mi chiamo Elena e mi trovo a Bergamo, all’Ospedale Papa Giovanni XXIII, l’avamposto tra i più colpiti dalla pandemia. Sono lì per donare nuovi ventilatori polmonari, indispensabili per quell’eccellenza della sanità lombarda in ginocchio. Da mesi non ho un giorno di sosta. Lavoro incessantemente con il team della mia Hope Onlus, organizzazione no profit, indipendente e laica. La chiamata mi sorprende tra le decine di telefonate grazie a cui da febbraio riesco a procurare e donare in tempi rapidissimi più di 320 tra ventilatori polmonari per terapia intensiva ed ecografi alla maggior parte degli ospedali della Lombardia e del Nord Italia.

«Lei può riuscire dove noi non siamo riusciti», tuona il cardinale. «Il Santo Padre le affida il suo desiderio». Ovvero, raccogliere più rapidamente possibile fondi e macchinari per aiutare i due Paesi più colpiti, il Brasile e l’India. E garantire che ogni donazione raggiunga anche gli ospedali più sperduti che accolgono gratuitamente migliaia di malati. Da quel giorno ho iniziato a parlare con il cardinale ogni mattina all’alba. E non mi sono più fermata. La situazione è tragica. Al momento della chiamata scopro che nel 70% del territorio brasiliano il numero di posti letto in terapia intensiva è al di sotto dei requisiti minimi dell’Oms, con solo 10 posti per 100mila abitanti. Vengo catapultata in un crescendo di connessioni, in una catena umana di solidarietà che mi porta a organizzare la più importante missione umanitaria che l’Italia abbia realizzato all’estero durante i mesi più duri della pandemia.

Vivo quelle giornate con paura, adrenalina e felicità. Coinvolgo il Policlinico di Milano e anche Giuseppe Caprotti, ex azionista e vicepresidente di Esselunga, che si dedica ora alla solidarietà. Il suo contributo è determinante. Grazie alla sua Fondazione Guido Venosta e ad altri donatori privati, riusciamo a installare diciotto postazioni di terapia intensiva, del valore di oltre un milione di euro, in sei ospedali brasiliani. Può sembrare poco a un Paese come l’Italia che ne ha quasi 7mila, ma l’abbondanza è un concetto molto relativo, a questo mondo. Per consegnarle, invio due volontari d’eccezione: Paolo Taccone, dirigente medico di terapia intensiva del Policlinico di Milano, e Antonio Guizzetti, economista ed ex dirigente della Banca Mondiale. La gente fa bene, mentre i giornali non se ne occupano. Percorrono centinaia di migliaia di chilometri. Raggiungono ospedali negli angoli più remoti del Paese. Arrivano al cuore dell’Amazzonia.

«Volevo che a documentare la missione in Brasile fosse una donna», racconta Elena Fazzini, fondatrice di Hope Onlus «ho scelto Greta Stella, che per un reportage sulla croce rossa durante il covid era appena stata nominata cavaliere al merito della repubblica». La foto della nave ospedale è sua. Greta seguirà elena in amazzonia anche per il prossimo progetto.

Niente avviene davvero per caso. All’origine di questo incredibile dispiego di energie, uomini e mezzi c’è un solo, singolo ecografo che mi ha salvato la vita anni fa. Partiamo dall’inizio. A dieci anni facevo la volontaria con mia mamma in un orfanotro o lombardo. Poi mi sono ritrovata giovane donna, laureata in Diritto internazionale con un master sulla tutela dei diritti dei minori, a seguire per le Nazioni Unite progetti di sviluppo nel settore della salute e dell’educazione in India, Kenya e Libano facendo la spola tra Madras, Beirut e Ginevra. Per Gruppo Generali, come project manager, ho lavorato a progetti di aiuto ai bambini e a famiglie in estrema povertà e di micro imprese femminili. Facevo, organizzavo, masticavo chilometri e progetti come una corazzata. Ma nel 2006 all’improvviso mi scontrai col mio personale evento drammatico, un muro che mi si parò davanti nel pieno dell’accelerazione. Un errore diagnostico avrebbe potuto compromettere gravemente la mia salute. La sentenza era una di quelle malattie che lasciano poca speranza a una giovane donna.

Mi operarono. E solo grazie a un ecografo materno infantile, e soprattutto a un medico dell’Ospedale San Gerardo di Monza che ha saputo utilizzarlo, ho avuto una seconda possibilità. Il mio destino prese così un’altra direzione, aprendo la strada a storie inimmaginabili.

Durante la mia convalescenza chiesi se ci fosse un ospedale che avesse bisogno di quello strumento. Volevo aiutare altre donne come ero stata aiutata io, restituire la buona sorte che mi aveva assistito. Mi indicarono l’Italian Hospital di Nazareth. Partii immediatamente per la Terrasanta con mio marito che nella vita, oltre a dover sopportare le mie avventure, fa l’avvocato.

Sul volo di ritorno, dopo aver scoperto che più che un macchinario mancava un intero reparto di neonatologia e di terapia intensiva neonatale, decisi di fondare un’organizzazione umanitaria. Così è nata Hope Onlus, “hope” come speranza, che a quel tempo per noi rappresentava quella di avere dei gli e il desiderio di aiutare altre persone. La prima speranza si è trasformata in Pietro e Davide, che oggi hanno 12 e 13 anni.

Per realizzare quel reparto partii completamente da zero. Non avevo risorse nanziarie, né un ufficio e collaboratori. Quindi preparai un piano d’azione strutturato, come avevo imparato alle Nazioni Unite e da manager di Generali. Poi convinsi professionisti e donatori a sostenermi in un progetto che subito sembrò folle.

Eppure riuscire in imprese di solidarietà è diventata la mia vita. Ogni mattina, prima di svegliare i miei figli, lavoro fra le 5 e le 7 da sola, guardando l’alba e aspettando che inizi il giorno. La fatica è tanta, ma è continuamente ripagata da un bene che si moltiplica ogni volta, a ogni impresa che decido di intraprendere.

E ora sento di dover correre ancora più veloce. Il presagio della nuova ondata autunnale è n troppo chiaro. Questa volta in Amazzonia andrò anche io. Per fronteggiare la quinta ondata voglio aiutare l’Ospedale Padre Colombo di Parintins. È in un luogo strategico, su un’isola del Rio delle Amazzoni. Lì arrivano, fra gli altri, i pazienti trasportati dall’ospedale-barca dedicato a Papa Francesco. Un faro in mezzo al verde sconfinato, con dieci camere per ricoveri e servizi di prima assistenza e lance e motosca che fanno da ambulanze. Naviga senza sosta verso villaggi in luoghi remoti, dif cilmente raggiungibili via terra, aiutando i veri dimenticati.

Come le madri dell’ospedale di Parintins. Nonostante abbia curato migliaia di malati di Covid-19, ha conservato la sua natura di ospedale generico e materno infantile. Lì nascono ogni anno più di 6mila bambini. Non possono essere lasciati soli. Nessuno si abbandona.